La medicina legale umanitaria sul morto
L’identità è un diritto fondamentale. Il Labanof dal suo inizio si batte affinchè tutti i morti senza nome siano riconosciuti. E dalla sua fondazione ha aiutato la battaglia sociale per l’istituzione di un ufficio di governo che si occupasse degli Sconosciuti, grazie anche ad una interrogazione parlamentare del 2007.
Perché è importante identificare i morti? Tale necessità nasce da esigenze morali, giuridiche, amministrative e addirittura di salute pubblica. I morti si identificano per i vivi. Ogni cultura o religione in qualche modo onora i suoi morti ed esprime il bisogno di sapere dove sono sepolti, dove andare a piangerli. È ormai dato assodato che il non sapere se un figlio o un padre sia vivo o morto porta a disturbi psicologici se non addirittura a comportamenti e abitudini di vita pericolosi (depressione, alcolismo) o a patologie organiche vere e proprie (e poi, se non ci sono certificati di morte di padri, madri o mariti e mogli, come si può procedere all’amministrazione della propria vita da parte di chi sopravvive?). Senza il certificato di morte, ad esempio, è molto difficile dare inizio all’iter burocratico per effettuare il ricongiungimento di un minore rimasto orfano con il parente in vita attualmente in un altro paese.
L’obbligo di identificare i migranti deceduti nel Mediterraneo
È stato stimato che negli ultimi 25 anni oltre 33000 vittime siano morte durante gli attraversamenti del Mediterraneo. Più della metà di questi è rimasta senza identità e sepolta in fosse singole o comuni nei cimiteri dei paesi del sud Europa. Indipendentemente dal fatto che l’identificazione dei cadaveri sia un dovere nei confronti dei morti e dei loro cari, che sia un obbligo civile, penale e umanitario menzionato nella Convenzione di Ginevra e nel Diritto Umanitario Internazionale, è del tutto assente una risposta a questa esigenza da parte del mondo intero.
Questi valori e queste obbligazioni, dunque, devono essere rispettati; il diritto degli esseri umani a non perdere la loro identità è oggi universalmente riconosciuto. Ed è un diritto che deve valere per tutti: lo dobbiamo coltivare a livello domestico ma, soprattutto in questo momento storico, anche a livello internazionale. Tutto ciò deve valere senza discriminazioni. Tuttavia, alle migliaia di uomini, donne e bambini che tentano di attraversare il Mediterraneo ogni anno e soprattutto ai loro cari questo diritto fondamentale è negato.
L’Italia per prima, dal 2014, si è fatta promotrice delle uniche operazioni identificative in questo senso, grazie al lavoro dell’Ufficio del Commissario Straordinario per le Persone Scomparse assistito dall’Università degli Studi di Milano (quest’ultima affiancata in alcuni momenti dalle Università di Catania, Messina, Palermo, Ancona, Bari, Brescia, Bologna, Milano-Bicocca, Torino, Pavia, Parma, Ferrara), insieme alla Marina Militare, ai vigili del Fuoco, alle Prefetture, alle Procure, alla Polizia Scientifica, alle ASP della Sicilia, a Croce Rossa Internazionale e a Croce Rossa Italiana e Svizzera.
Si è così iniziato – in un clima che sembrava suggerire che non fosse possibile identificare queste persone, che comunque nessuno di loro cercasse questi morti e che forse “per loro” non era così importante - un grande e lungo lavoro tecnico di riconoscimento.
Tutto iniziò con il naufragio avvenuto al largo delle acque di Lampedusa il 3 ottobre 2013, nel quale hanno perso la vita quasi 400 migranti prevalentemente eritrei, che ha costituito un caso senza precedenti nel nostro paese ed ha rappresentato una specie di spartiacque nell’approccio alla problematica dei cadaveri non identificati per la maggiore attenzione dedicata da quel momento alle procedure seguite per la raccolta dei dati. L’attività promossa dal Commissario ha rappresentato la prima nel suo genere, non solo nel nostro paese, e ha portato alla raccolta dati da circa 300 persone che cercavano i loro morti in quel disastro e che si sono mobilitate da varie parti d’Europa, dimostrando che i famigliari sentono fortemente questa esigenza
Il secondo progetto pilota ha riguardato le vittime della tragedia del 18 aprile 2015, avvenuta nelle acque internazionali tra la Libia e l’Italia, dove è affondata un’imbarcazione con a bordo circa 1000 persone (il “Barcone”). In questo caso il relitto e le sue vittime sono stati recuperati ed esaminati per raccogliere i dati utili. E anche in questo caso si sono raccolti i dati antemortem da oltre 300 famiglie (che cercano i loro cari) soprattutto dall’Africa sub Sahariana.
Fino ad ora le salme identificate – e quindi le famiglie che hanno ricevuto una risposta - sono quaranta. Potrebbe essere di gran lunga maggiore il numero di queste vittime, e di conseguenza le loro famiglie, se avessero lo stesso trattamento delle vittime dei “nostri” disastri europei.
Le attività finora svolte hanno avuto l’importante compito di dimostrare che i famigliari di questi naufraghi reclamano i loro morti e che questi morti possono essere identificati così come quelli di qualsiasi incidente aereo o disastro di massa. Ed è un diritto fondamentale dei vivi che li cercano.
Tuttavia la totale assenza di fondi e di attenzioni per tale tematica ha fatto sì che per ora siano poche le famiglie, gli orfani, le vedove, i genitori e i figli a beneficiare di un certificato di morte e a poter finalmente iniziare un percorso di lutto.
Ciò che è un diritto non puo’ essere delegato alla “beneficienza” di fondazioni private (Fondazione Isacchi Samaja, Fondazione Cariplo, Terres des Hommes, American Academy of Forensic Science Humanitarian and Human Rights Research Centre) e alla buona volontà della società civile, come finora è stato.
E’ quindi fondamentale far prendere responsabilità all’Europa (che logisticamente è nella posizione ideale per identificare queste vittime poiché molti parenti sono in nord Europa e i cadaveri al sud) affinché tratti i morti di questo enorme disastro del Mediterraneo (diluito nel tempo e nello spazio) come quelli di tutti gli altri.
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Il percorso identificativo è già stato tracciato dai casi di Lampedusa e Melilli, e si è visto quali sono le difficoltà e come possono essere superate. Basterebbe che ogni paese europeo creasse dei punti di raccolta dati dai famigliari e dai cadaveri tramite gli uffici e i laboratori già interni alle istituzioni che fanno operazioni identificative ogni giorno, e che questi dati venissero dalle stesse agenzie (con le dovute tutele) condivise. Questa relativamente semplice operazione aumenterebbe di gran lunga i numeri degli identificati, e dei famigliari che sarebbero finalmente riconciliati con i loro cari.
Sarà capace l’Europa di porre rimedio all’enorme violazione dei diritti umani della quale si è macchiata negli ultimi anni?
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